Luciano De Vita

Luciano De Vita (Ancona, 24.V.1929 - Bologna, 14.VII.1992).
Artista d'opera
Incisore, pittore, scenografo, Luciano De Vita è una figura di spicco nell'ambito dell'arte bolognese del secondo '900, soprattutto come incisore. Nato ad Ancona il 24 maggio 1929, frequenta negli anni '50 l'Accademia di Belle Arti di Bologna, dedicandosi in particolare alla pratica calcografica; nel 1955 diviene assistente alla cattedra di Tecniche dell'Incisione tenuta da Giorgio Morandi, mentre nel 1961 ottiene l'insegnamento all'Accademia di Torino e più tardi a Brera, rimanendo a Milano fino al 1976. Trasferito all'Accademia di Belle Arti di Bologna vi rimarrà fino al 1992, anno della sua scomparsa. De Vita è presente alle più importanti rassegne nazionali e internazionali: alla Quadriennale di Roma nel 1959; alla XXX Biennale d'Arte di Venezia nel 1960; alla IV Esposizione Internazionale de Gravure di Lubiana nel 1961; alla VI Biennale di S. Paolo del Brasile 1961; alla I Biennale de Gravure di Cracovia nel 1966.
Nel 1975, con una vasta esposizione, inaugura la nuova Galleria d'Arte Moderna di Bologna. Particolarmente significativa è stata la sua attività come scenografo per il teatro lirico al Comunale di Bologna, che si inaugura con la Turandot di Puccini nel 1969, prosegue nel 1971 con l'Otello di Verdi e nel 1973 con L'angelo di fuoco di Prokofiev, termina nel 1981 con un'Aida di Verdi di cui fu anche regista. Nel 1974 aveva anche progettato figure e costumi a commento visivo delle Veglie di Siena di Orazio Vecchi, un madrigale drammatico del 1604 presentato nella suggestiva cornice del cortile dell'Archiginnasio durante le Feste Musicali bolognesi. De Vita ha contribuito con la sua personale interpretazione dell'immagine scenica a un vero rinnovamento del teatro del melodramma, ricreando, attraverso il quadro visivo, un eloquente commento alla magia della musica.
In quegli anni, alla fine del sesto decennio del '900, si assisteva a Bologna, nell'ambito del teatro in musica, a una svolta epocale: con la illuminata sovrintendenza di Carlo Maria Badini si crearono le condizioni per un rinnovamento della messinscena operistica che era ancora legata alla tradizione. Era un modus operandi che non accettava alcuna nuova visione interpretativa dell'immagine scenica, perdurandovi un certo conformismo estraneo a ogni innovazione. L'opera si rappresentava attenendosi agli schemi librettistici di un naturalismo di sapore tardottocentesco. Nel teatro di prosa erano avvenuti già molti cambiamenti, mentre il teatro lirico restava la roccaforte della tradizione, seppur nobile, della scena italiana. Uno dei primi aspetti fu quello di affidare il progetto della messinscena non ad operatori di mestiere, ma ad artisti, scultori o pittori di rilievo; il primo di questi fu Luciano Minguzzi, invitato a creare le scene del Mosè di Rossini, e questo evento fu una vera novità per il palcoscenico del teatro musicale bolognese. Seguì, poi, De Vita nel 1969 con la Turandot, caleidoscopico spettacolo di colore fondato sulla vivace presenza di costumi e di un'attrezzeria che rimandava a un gioco fantastico di ascendenza futurista alla Depero. Fu un successo che permise a De Vita di utilizzare tutto il suo repertorio, fatto di automi, di emblemi e maschere in un susseguirsi di apparizioni e mutazioni che ben esaltavano la favolistica dimensione rappresentativa dell'opera. Quando nel 1971 gli fu affidata la realizzazione dell'Otello, De Vita aveva già acquisito una sufficiente pratica scenografica e il palcoscenico gli offrì una ulteriore occasione per portare alla ribalta tutto il suo repertorio visionario. In questo caso era esclusa, o quasi, la componente pittorica, ma si esaltava il drammatico contrasto del chiaroscuro delle luci e delle ombre all'interno di una scatola scenica delimitata dalle quinte, dai principali, dai cieli e dai fondali che l'artista aveva recuperato dalla scenotecnica barocca. Il dramma di Otello si trasformava così in una ossessiva iterazione di bicromie in cui perfino i costumi dei personaggi non si distinguevano dagli elementi scenici: infatti ne veniva delineata un'immagine unica, con accenti inquietanti a cui si aggiungevano mostruose figure recuperate dall'album grafico dell'autore. Il rifiuto del pubblico, che interruppe la prima rappresentazione al terzo atto, segnò la verifica della novità. Il malessere inscenato dall'artista, fuori da ogni schema, da ogni convenzione, era frutto invece di un'interpretazione psicoanalitica del personaggio di Otello, come avvertitamente qualcuno sottolineò. Su questa linea si collocano anche gli allestimenti dell'Angelo di fuoco di Prokofiev nel 1973 e dell'Aida di Verdi nel 1981 (qui con De Vita anche regista).
Ricordo poi un significativo contributo all'esecuzione delle Veglie di Siena di Orazio Vecchi. Per quella occasione De Vita creò immagini di figure allegoriche a visualizzazione dell'esecuzione musicale: all'interno di vere scatole sceniche, illuminate alternativamente, apparivano quasi immobili ierofanti incapsulati in costumi rigidi o geometrici, sculture il cui modello di riferimento ricordava i famosi Balli Plastici di Depero, ma che si riconducevano anche al repertorio iconografico barocco. Erano apparizioni di forte suggestione tratte dall'immaginario della produzione grafica dell'artista, per l'occasione trasposta plasticamente in forma teatrale. Il rapporto fra musica e immagine come risultato era perfetto: il gioco barocco, ancora una volta, ne rinsaldava, e non solo concettualmente, l'unità espressiva.
Stagioni e compagnie
Al Comunale di Bologna, la stagione d'opera e balletto 1969-70 cominciò il 13 dicembre con un bell'allestimento del Wozzeck di Berg, firmato da Virginio Puecher come regista (e scenografo assieme a Ugo Mulas). Dieci giorni dopo, ecco la Turandot di Luciano De Vita scenografo e costumista, diretta dallo stesso Nino Sanzogno che aveva diretto l'opera di Berg. Alle quattro recite bolognesi succedettero altre recite a Zagabria, Budapest, Reggio Emilia e Parma. Tante, dunque, e tali da giustificare più compagnie di canto: tre soprani drammatici, due tenori, tre soprani lirici. Fra questi si notò, come Liù, la grazia di Mietta Sighele; il primo degli interpreti del Principe Ignoto fu Charles Craig, che sarebbe ritornato come protagonista dell'Otello di De Vita; protagonista, prima di due voci italiane, fu la corposa Marion Lippert, che sarebbe tornata a Bologna come Lady Macbeth tre anni dopo. Il colore certo non mancò, se non per altro per via del carattere dell'opera esotica e del gusto pittorico di De Vita, ma sulla possibile fissità, nell'immagine, prevalse il movimento, per quanto mai troppo spettacolare. Bella e originale, la Turandot di De Vita fu ricordata a lungo, ma se fu la prima di altre e assai interessanti messinscene bolognesi, non doveva poi essere la premessa di un robusto filone professionale: evidentemente l'artista era molto impegnato altrove e il contesto italiano era ancora piuttosto convenzionale, certo non tutto pronto a cogliere una tale visione dello spettacolo d'opera.
Ragguardevole la stagione 1970-71, con La traviata di Sandro Sequi e Giuseppe Crisolini Malatesta, il Falstaff di Filippo Crivelli e Lorenzo Ghiglia, la Rondine di Raoul Grassilli e Maurizio Monteverde, La forza del destino di Sandro Bolchi e Mischa Scandella fra l'altro. Eccellente l'apertura della stagione 1971-72, a perfetto ricordo di quel Lohengrin che cento anni prima aveva segnato l'ingresso trionfale di Wagner in Italia: otto recite, in lingua italiana, mirabilmente dirette da Francesco Molinari Pradelli e cantate dal tenore Franco Tagliavini, dal soprano Rita Orlandi Malaspina, dal mezzosoprano Danika Mastilovic e dal baritono Gian Giacomo Guelfi. Fulvio Angius aveva istruito il coro, alla regia aveva provveduto Sandro Sequi, alla scenografia-costumistica Maria Antonietta Gambaro. Era il 31 ottobre, e il 13 novembre scattò un Otello che doveva confermare il concertatore e il maestro del coro, cambiare il regista (il tradizionale ma sempre elegante e attendibile Grassilli) e lo scenografo-costumista, Luciano De Vita appunto. Una grande prova, la sua, a ridosso di un'opera molto popolare e quindi soggetta a convenzioni, decorazioni, azioni ormai quasi immotivate. De Vita vinse con l'asciuttezza, la linearità, la monocromia (almeno in spirito), la spazialità, che al vuoto psicologico del personaggio fecero corrispondere una sorta di deserto scenico: il “popoloso deserto” della traviata Violetta divenne l'habitat di un personaggio portato a dimostrare la validità di una recente, nuova interpretazione, quella per cui il personaggio di Shakespeare, Boito e Verdi fosse geloso sì ma più che geloso tanto passionale da aver fondato tutta l'esistenza sul rapporto d'amore (crollandogli il quale, a suo falso credere, gli cadeva il mondo addosso). Feste anche al tenore Craig, ai baritoni bolognesi Mario Zanasi e Franco Bordoni, al soprano Maria Chiara che all'epoca, ancora, di Renata Tebaldi nei panni di Desdemona, sapeva ritrarre un suo personaggio assai ben cantato e semplice, schietto come l'apparato visivo di De Vita. Quell'anno era morto, a 89 anni, Igor Stravinskij: due settimane dopo l'Otello di Verdi il Comunale allestiva due balletti del grande, secondo alcuni del maggior musicista del secolo: Pulcinella e Le baiser de la fée, direttore Bruno Rigacci, coreografo (e ballerino) Loris Gay, regista Beppe Menegatti. E la fata era Carla Fracci, affiancata da Amedeo Amodio come Giovanotto.
Il 1973, l'anno che aveva portato a Bologna la Maria, protagonista della donizettiana Figlia del reggimento, di Mirella Freni, doveva finire con un'apertura '73-74 dedicata all'Angelo di fuoco di Prokofiev, nella versione ritmica italiana di Mario Nordio: la “bolognesità” interpretativa di Otello doveva venirvi meno, ma non poi del tutto. Perché la direzione fu affidata a uno specialista del '900 come Zoltán Peskó e la regia a un artista di caratura superiore e internazionale come Virginio Puecher, ma le scene e i costumi furono di Luciano De Vita, che si dovette trovare a suo pieno agio trattando un dramma così complesso, scomodo, ambiguo, visionario, innaturale e antirealistico. A brillare, in scena, fu il baritono Claudio Desderi, cantante-attore solitamente apprezzato nella commedia di Mozart e Rossini; protagonista, nelle diverse recite previste fra il 15 e il 26 dicembre, fu ora Mirka Klaric e ora Nora De Rosa, in un ricco contesto di personaggi ben onorato da un efficientissimo comprimariato bolognese.
Otto anni dopo, e nove anni prima della morte, ecco De Vita impegnato nell'Aida di Verdi, ancora una volta a inaugurare una stagione lirica. Il 5 dicembre 1981 l'ardua partitura fu diretta da Vladimir Delman e dello scenografo-costumista ebbe anche la regia. Per Bologna fu la grande occasione di conoscere una delle maggior intetpreti verdiane del momento, il soprano di colore Martina Arroyo, che cantò con una drammaticità vocale superlativa, a volte sembrando un mezzosoprano e a volte squillando come un soprano lirico, Singolare il resto della compagnia, composta da voci tanto straniere, d'area slava, quanto italiane (queste spesso in turni secondari, però). Benefica la coppia Delman-De Vita, pronta a tutto fuorché a ricostruire la solita, superficiale Aida monumentale e floreale: il dramma di Calaf, Otello, Ronald tornò in Radamès, come quello di Turandot e Renata in Aida e Amneris. Poco di fuori, insomma, e tutto di dentro, ecco il segreto; e tutto comunque percettibile dietro le eterne maschere del melodramma.
Per la cronaca, quella stagione proseguì con spettacoli non certo di maniera: Abu Hassan di Weber e Adina di Rossini ebbero la regia di Roberto Guicciardini, la Kovàncina di Musorgskij quella di Flavio Ambrosini, la Tosca di Puccini quella di Giancarlo Cobelli, l'Adriana Lecouvreur di Cilea quella di Mauro Bolognini, il Don Giovanni di Mozart quella di Roberto De Simone. Dunque tempi stavano mutando, nella concezione del teatro d'opera, e certo si sarebbero potuti servire ancora del talento speciale di Luciano De Vita. Altro vollero le ragioni della convenienza, della carriera, della critica, dell'esistenza, ma i quattro spettacoli inscenati dal Comunale di Bologna con il suo sigillo artistico rimangono; e molto potrebbero ancora insegnare a una temperie che crede di dover innovare solo stravolgendo. Dove a fare il dramma è la musica, la scena deve capire, interpretare, rendere tangibile e visibile la volontà della musica. Ma non è mica facile, non è mica permesso a tutti.
In mostra
XXX Esposizione Biennale Internazionale d'Arte, Venezia, 1960; A. Emiliani, Le acqueforti di Luciano De Vita, 1964; A. C. Quintavalle, Mostra antologica di Luciano De Vita, Parma, 1966; Luciano De Vita, L'altare di Bologna, catalogo della mostra, Bologna, 1967; A. Emiliani, Luciano De Vita, catalogo della mostra, Bologna, 1975; Luciano De Vita peintre-graveur, catalogo della mostra, Bologna, 1992; Luciano De Vita, catalogo della mostra, Ferrara, 1994; Luciano De Vita, Le prime acqueforti, 1950-1956, catalogo della mostra, Bologna, 1997; Luciano De Vita, catalogo della mostra, Bologna, 2019; Luciano De Vita Antologica, catalogo della mostra, Bologna, 2020.
Pietro Lenzini
Il gioco barocco di De Vita
in Jadranka Bentini e Piero Mioli (a cura di)
Maestri di Musica al Martini. I musicisti del Novecento che hanno fatto la storia di Bologna e del suo Conservatorio
Bologna, Conservatorio «Giovan Battista Martini», 2021
Sito ufficiale: www.lucianodevita.com/